Il procedimento avanti il Tribunale di Minori è durato 10 anni e il Ministero della Giustizia è stato condannato all’equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo ex L. 89/2001 (Legge Pinto).
Il caso è quello di una coppia convivente more uxorio con un figlio all’epoca di quattro anni e terminato quando ne aveva quattordici.
Il padre si rivolgeva al Tribunale dei Minori affinché si pronunciasse in ordine all’affidamento del figlio e provvedimenti conseguenti e relativi. Le parti partecipavano alle udienze di volta in volta fissate, venivano assunti i provvedimenti provvisori in ordine alla gestione del minore – nel tempo rimodulati sulla base delle mutate esigenze del minore – nonché alla misura del contributo di mantenimento dovuto dal padre, rimasta invariata per dieci anni nonostante il padre avesse chiesto una revisione per aver nel frattempo perso il lavoro e trovato un altro con un reddito decisamente inferiore. Benché la coppia manifestasse conflittualità, tipica in situazioni del genere, i rapporti di ciascun genitore col bambino non presentavano problemi e il bambino cresceva sereno. Circostanza questa, che ha reso ancor più evidente l’irragionevole durata del procedimento.
Il padre, durante i dieci anni di pendenza del procedimento, si vedeva comprimere il suo diritto di paternità: non gli era possibile frequentare il figlio oltre il rigido calendario stabilito e non poteva portare con sé il figlio oltre i confini Italiani neanche per visitare la famiglia e i parenti paterni di nazionalità indiana.
Il decreto definito dal Tribunale dei Minori confermava l’affidamento del figlio ad entrambi i genitori e le modalità di visita già adottate nel tempo e stabiliva il contributo di mantenimento, in accoglimento della richiesta paterna, in misura inferiore a quello corrisposto sino ad allora.
Il padre, ritenendosi leso nei suoi diritti di padre e persona, decideva quindi di ricorrere alla Corte d’Appello che, in applicazione della Legge Pinto, condannava il Ministero della Giustizia a pagare un indennizzo al ricorrente, oltre alla refusione delle spese legali, per l’irragionevole lunghezza del processo. L’entità dell’indennizzo non era particolarmente rilevante – certamente non di giusto ristoro per il danno subito – ma assai importante e di grande soddisfazione per il genitore che per anni aveva atteso che si mettesse una parola fine alla vicenda. Ma soprattutto il genitore si vedeva, così, riconosciuta l’ingiusta sofferenza vissuta.
La Corte d’Appello adita ha applicato la Legge Pinto (L. 89/2001, come modificata dalla L. n. 54/2012 e 208/2015)
Come è noto l’abnorme durata del processo è disciplinata dalla predetta legge che non fa altro che applicare i principi dettati dalla Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo, in particolare l’art. 6, paragrafo 1 che impone il rispetto del termine di ragionevole definizione del procedimento.
La Legge Pinto, nelle recenti modifiche, ha ristretto molto la misura dell’indennizzo per ovvie ragioni di bilancio per il Ministero della Giustizia, però ciò non toglie che per i protagonisti del processo, ossia le parti coinvolte spesso in penose vicende, il pagamento di un indennizzo può rappresentare un ristoro morale molto significativo che ripaga di tanti disagi, ansie e sofferenze patite nel corso degli anni di causa.
Per ricorrere contro l’irragionevole durata del processo occorre rispettare il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato del provvedimento che definisce il giudizio.
Tuttavia con la recente sentenza n. 88/2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale tale previsione normativa, aprendo le porte a ricorsi contro l’irragionevole durata del processo anche per giudizi in corso che si stiano protraendo oltre i termini indicati dalla stessa legge.
Infatti è interessante rilevare come la legge Pinto indichi come durata ragionevole il periodo di tre anni per il giudizio di primo grado, due anni quello di secondo grado ed un anno quello di legittimità. In base alla comune esperienza nei tribunali Italiani, a questo punto, ci si domanda, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, se aumenterà il contenzioso .
In realtà la misura degli indennizzi determinata dalla Legge Pinto, dopo la recente riforma del 2015, è molto bassa ed in tal modo disincentiva il cittadino a proporre ricorso.
L’unico rimedio potrebbe essere quello di rivolgersi alla Corte EDU, ma ciò è possibile solo dopo aver terminato tutti i gradi di giudizio in Italia, per far valere l’inadeguatezza dell’indennizzo e, quindi, di fatto la violazione dell’art. 6 della Convenzione per i diritti dell’Uomo sotto il profilo che nonostante la previsione a livello nazionale di una legge che ponga rimedio al male della lunghezza dei processi, il ristoro sarebbe così limitato che in pratica vanificherebbe la tutela accordata dal trattato.
E’ evidente però che il cittadino si troverebbe in difficoltà perché dovrebbe affrontare l’ennesimo giudizio con il risultato che di fatto risulta disincentivato ogni ulteriore azione contro lo Stato inadempiente.
Ma non bisogna scoraggiarsi perché, si sa, la felicità non è fatta di solo pane!
A cura di Alberto Sbarra e Lidia Maddalena Besi